Del Carcere-Scuola e dell’Ingovernabilità

schoolkills

 

 

La scuola è un CARCERE. È un carcere non perché ha orari prestabiliti, routine rigidamente delineate e rispettate o perché sono limitati gli orari di entrata e uscita. La scuola è un carcere perché quando ci stai dentro, sei solo un altro in mezzo a mille, da controllare e assicurarsi che PRODUCA risultati quantificabili. La scuola è un carcere perché è “scuola di vita”, paradigma della società e quindi propedeutica ad una cultura del giudizio, della superficialità e del giustizialismo.

La scuola non esiste in funzione degli studenti, ma paradossalmente sono gli studenti che esistono in funzione della scuola. Gli studenti servono perché la scuola vada avanti, perché ogni studente genera un flusso di capitale umano ed economico che la scuola aiuta (chi?) a capitalizzare.

A scuola ci insegnano che noi siamo lì per imparare, per prepararci a ciò che verrà dopo. Principalmente università o lavoro. Sorvoliamo sull’università (ma solo per non sparare subito sulla croce rossa). Il lavoro malpagato, a nero, senza garanzie, precario o, come sempre più spesso capita, paradossalmente GRATUITO. Il lavoro come obiettivo ultimo, la realizzazione lavorativa posta in identità con la realizzazione personale sono concetti pericolosi. Diventa necessario sapere COM’É FATTO il mondo del lavoro, e non solo propensi a sperimentarlo, ma anche entusiasti di ciò. Questo vale tanto per l’alternanza scuola lavoro, quanto per l’approccio alla scuola.

La scuola è un carcere, come quello che una volta si sarebbe chiamato “lavoro salariato”, e che adesso ha assunto molte forme differenti, mantenendo nella sostanza la sua natura di sfruttamento. Del luogo di lavoro la scuola, oltre alla scansione dei tempi e il carattere produttivo, ha l’alienazione. Gli studenti sono masse alienate da se stessi e da ciò che fanno. Dello studente, l’attività scolastica non ha nulla, e nulla l’attività scolastica ha per lo studente in sé. Lo studente è alle volte un capitale umano da investire, altre un vaso da riempire, sempre una mente da incasellare, ma mai un essere umano da formare.

La scuola è un carcere, come lo è l’ospedale. Sentiamo spesso, tra corridoi, aule e cortili, parlare degli studenti (ma anche dei docenti e del personale) come oggetti, come se non avessero una propria identità, figurarsi un arbitrio. Come il medico è depositario delle conoscenze necessarie per guarire malattie e sanare ferite, allo stesso modo l’insegnante è deputato all’educazione delle nuove generazioni. E così, dogmaticamente, l’insegnante si fa ora medico ora sacerdote, diventa guaritore degli ignoranti e possiede il fuoco mistico della sapienza. Se lo studente “non capisce”, è una sua mancanza.

La scuola così com’è fatta è, come il carcere, il lavoro o gli ospedali, strumento di controllo sociale volto a facilitare la governabilità. In questo momento la principale arma che abbiamo in mano è proprio l'”ingovernabilità” con l’autorganizzazione come STRUMENTO di un altro-fare. Costruire alternativa TRASVERSALMENTE nelle scuole, senza limitare l’esercizio dell’autorganizzazione all’assemblea di collettivo, organizzando attività autogestite volte a incontrare i bisogni e gli interessi di noi studenti, incuneando così dei momenti di socialità che dimostrino l’abissale distanza del mondo scolastico dalla realizzazione dei suddetti bisogni e interessi senza “umanizzare” il carcere-scuola, bensì dimostrandone l’inutilità.

Una delle cose di cui lo studente ha coscienza è quello dell’essere “generazione”, non in un senso aggregativo o identitario, ma riconosce negli altri se stesso in un futuro precario, accomunato agli altri dalla mancanza di certezze, tranne la necessità di sgomitare per primeggiare.

La scuola è paradigma della società. Come tale, offre uno specchio distorto della realtà in cui è inserito. Tale distorsione è data da noi, pezzi di carne che in comune hanno l’età e poco più, e che spesso senza essere forzatamente accostati avrebbero frequentato “giri” assolutamente diversi e difficilmente in contatto.

Mantenere trasversalmente la capacità di autorganizzarci, avendo l’autorganizzazione come approccio alla realtà significa interrompere il processo di molecolarizzazione che la scuola, come una mola che riduce in farina il grano, porta nelle nostre vite.